da Panorama 01/01/2009 di Franca Roiatti
A guardarlo su una cartina pare un enorme Risiko, con i giocatori, i governi e le aziende private che corrono su e giù per il globo alla conquista di intere porzioni di altri paesi. Le armi per la caccia sono i soldi, lo scopo schierare aratri e mietitrebbie, la posta in palio è la terra agricola, che il terremoto finanziario e l’alto prezzo dei cereali hanno trasformato in oro.
La Fao prevede che entro il 2030 il mondo avrà bisogno di 1 miliardo di tonnellate in più di cereali per nutrire una popolazione che avrà superato gli 8 miliardi. E questo ha scatenato le paure di stati come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina e Corea del Sud, ma anche India e Libia, che non dispongono di spazi e risorse sufficienti per coltivare il cibo per i propri abitanti. Ha inoltre stimolato gli appetiti dei fondi di investimento e delle multinazionali che nei campi di soia, grano e olio di palma vedono il business dei prossimi decenni. Complice la corsa ai biocarburanti.
Nel 2008 il ritmo dello shopping verde ha subito un’accelerazione straordinaria. L’ong spagnola Grain ha censito un centinaio di accordi per l’acquisto e l’affitto di terreni e risaie dal Pakistan al Kenya, dalle Filippine al Sudan, dal Kazakhstan al Brasile. La più vorace, stando alla classifica di Grain, è la Corea del Sud. Quarto importatore al mondo di mais, ha siglato intese su circa 2,3 milioni di ettari.
L’ultima è stata annunciata a novembre dalla Daewoo logistics. Il colosso sudcoreano ha dichiarato di avere ottenuto dal governo del Madagascar il diritto a coltivare per 99 anni 1,3 milioni di ettari a granoturco e palma da olio: prodotti da rispedire in Corea. In cambio, la Daewoo si impegnava a costruire infrastrutture e creare posti di lavoro: neanche 1 euro sarebbe entrato nelle casse dello stato malgascio.
Di fronte alla dimensione e alle condizioni dell’affare sono esplose le critiche di attivisti e istituzioni locali e internazionali, soprattutto perché nell’isola africana almeno 600 mila persone dipendono ancora dagli aiuti alimentari del World food programme. «L’arrivo di investitori stranieri non può avvenire senza che le popolazioni locali siano protette da eventuali crisi alimentari. Questo fenomeno deve essere regolamentato» ha tuonato Alain Joyadet, sottosegretario francese alla Cooperazione. Il governo del Madagascar si è affrettato a smentire che sia stato raggiunto un accordo. «Ma nella maggioranza dei casi ciò che si viene a sapere di questi contratti è davvero pochissimo» sottolinea Renée Vellvé, che ha curato il rapporto di Grain. «La Cina sta da tempo silenziosamente comprando o affittando terreni e costruendo fattorie dove arrivano scienziati e contadini cinesi per avviare la produzione di soia e riso ibrido».
Nei prossimi 50 anni la Repubblica Popolare investirà 5 miliardi di dollari nell’agricoltura in Africa, dove ha siglato una trentina di accordi che prevedono l’accesso a terreni fertili in cambio di strade, sistemi di irrigazione, formazione e tecnologia. Il dragone, che conta il 40 per cento dei contadini del mondo, ha solo il 9 per cento di terre coltivabili. Industrializzazione e inquinamento stanno mettendo a rischio l’autosufficienza alimentare, tanto che il ministero dell’Agricoltura di Pechino avrebbe già pronto un piano per delocalizzare la produzione di cibo.C’è chi, però, ha ancora meno tempo e risorse della Cina: gli stati del Golfo Persico e l’Arabia Saudita. Il numero di abitanti di quest’area toccherà i 60 milioni entro il 2030, il doppio dall’inizio del secolo. Le fonti d’acqua dolce sono destinate a prosciugarsi entro 30 anni, la difficile e fortemente sussidiata produzione agricola locale non è più sostenibile.Ancora più rischiosa la prospettiva di un’impennata nel prezzo dei cereali. Nel 2010 questi paesi importeranno dall’estero il 60 per cento del loro fabbisogno di cibo e l’aumento dei costi per le famiglie «rischia di provocare significative proteste sociali, soprattutto fra i lavoratori immigrati: la maggioranza della popolazione» avverte un rapporto del Gulf research center, che indaga sulle possibilità d’investimento dei petrodollari nel settore agrario in Africa e Asia Centrale.
A luglio il ministro dell’Economia degli Emirati Arabi ha annunciato l’intenzione di acquistare terreni in Africa, Cambogia, Vietnam, Kazakhstan e Sud America, un investimento massiccio è stato concluso in Sudan, dove sono attivi anche Arabia Saudita, Qatar e Giordania. In Pakistan gli Emirati hano comprato terra per coltivare cereali da rimandare in patria. Operazione per la quale hanno cercato di evitare le tariffe sull’export imposte da Islamabad, proprio per contrastare l’aggravarsi della crisi alimentare pachistana.Il gruppo saudita Bin Laden ha sottoscritto un contratto da 4,3 miliardi di dollari per sviluppare 500 mila ettari di risaie in Indonesia. L’azienda sta considerando la possibilità di riservare parte del riso prodotto al mercato locale, «così la gente non crea problemi». Il Gulf research center mette in guardia proprio dal pericolo che gli investimenti nei paesi in via di sviluppo provochino conflitti sociali innescati da dispute sui diritti di occupazione della terra e sull’uso dell’acqua. In Egitto i contadini del distretto di Qena hanno fatto lo sciopero della fame per riavere i 1.600 ettari di terra che gli amministratori locali avevano concesso a un’azienda giapponese per produrre cereali. In Tanzania 11 villaggi sono stati rasi al suolo per fare spazio a una piantagione di jatropha (arbusto tropicale) e palma da olio per biocarburanti. Episodi simili sono accaduti in Brasile, Colombia, Indonesia. Preludio di un sistema per regolare le controversie che allarma gli esperti. «In Africa il diritto di proprietà è molto sfaccettato e non esistono spazi inutilizzati. I terreni incolti concessi agli stranieri sono spesso usati per la pastorizia e la raccolta di legna da piccoli contadini, tra i più poveri» osserva Michael Taylor di Land coalition, organizzazione che si occupa dell’accesso alla terra. «Nel concludere gli accordi i governi applicano leggi che non tengono conto delle consuetudini, ma in questi luoghi la terra è più di un bene materiale, è una questione di status e dignità. Se gli investitori vogliono evitare il diffondersi di conflitti, devono considerare questi aspetti». Alla base di molti contratti come quello ideato dalla Daewoo in Madagascar c’è la promessa di realizzare infrastrutture e creare posti di lavoro. Il Qatar, per esempio, ha promesso al Kenya di finanziare con oltre 2 miliardi di euro la costruzione di un porto nell’isola di Lamu in cambio di 40 mila ettari da coltivare a cereali. «Si tratta di coltivazioni su larga scala, altamente meccanizzate. Le possibilità di occupazione per la gente del posto sono davvero scarse» obietta Renée Vellvé.
E se il direttore generale della Fao Jacque Diouf ha bollato questa corsa all’oro verde come «neocolonialismo», alcuni paesi la considerano un’occasione. L’Angola ha offerto la propria terra sul mercato internazionale, mentre il primo ministro etiope Meles Zenawi si è detto ansioso di accogliere aziende straniere.«L’agricoltura, specialmente in Africa, è stata dimenticata per anni dagli stati donatori» ammette David Hallam, responsabile della Fao per l’interscambio commerciale. «Per questo c’è bisogno di qualsiasi investimento. Dobbiamo soltanto evitare gli effetti negativi».
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